PREMIO BERTO 2019: LA CINQUINA FINALISTA

PREMIO BERTO 2019: LA CINQUINA FINALISTA

Il vincitore della XXVII edizione del Premio sarà proclamato sabato 29 giugno a Mogliano Veneto

Jonathan Bazzi, con Febbre, Fandango Libri, Alice Cappagli, con Niente caffè per Spinoza, Einaudi, Alessio Forgione, con Napoli mon amour, NN Editore, Francesca Maccani, con Fiori senza destino, SEM, Lorenzo Moretto, con Una volta ladro, sempre ladro, Minimum Fax.

E’ questa la cinquina dei finalisti della XXVII edizione del Premio Letterario Giuseppe Berto selezionati dalla Giuria, presieduta da Ernesto Ferrero, riunitasi a Milano.

Sono state una cinquantina le opere prime presentate dalle case editrici italiane e selezionate dalla Giuria. Sono tutte di narrativa, com’è peculiarità del Premio Berto che, in nome dello scrittore “veneto-calabrese”, ha mantenuto invariata la propria formula di premio riservato esclusivamente a scrittori esordienti, conservando quel ruolo di scopritore di talent scout iniziato nel 1988.

Questa edizione conferma la presenza tra i partecipanti, di numerosi piccoli editori indipendenti, molti del Sud, che competono con i loro esordienti al fianco di tutte le grandi case editrici nazionali. Torna a crescere la presenza femminile quasi al 50 per cento del totale.

La Giuria che ha valutato le opere in concorso è presieduta da Ernesto Ferrero, scrittore, critico, consulente editoriale e direttore del Salone del libro di Torino dal 1998 al 2016, ed è composta da Cristina Benussi, Università di Trieste, Giuseppe Lupo, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano e scrittore, Laura Pariani, scrittrice, e Stefano Salis, critico e giornalista del Sole 24 Ore.[the_ad id=”7567″]

 Cercando di restare fedele allo spirito di generosa attenzione che Giuseppe Berto ha dedicato ai giovani, la giuria del Premio 2019 ha selezionato, in una produzione particolarmente folta e ricca di fermenti, cinque romanzi che nella diversità dei loro linguaggi rappresentano altrettante prospettive della nuova narrativa italiana. Cinque autori che ci forniscono una mappa aggiornata delle tensioni, dei drammi e delle aperture che scuotono la società contemporanea, attraverso scritture che cercano di restituire la parola alla sua necessità e integrità.
“Jonathan Bazzi (Febbre, Fandango Libri), racconta coraggiosamente in stile rap la fatica di un riscatto nella periferia di una grande metropoli; Alice Cappagli (Niente caffè per Spinoza, Einaudi), ci propone una frizzante sit-com all’italiana, con una precaria che diventa badante-lettrice di un anziano professore di filosofia; Alessio Forgione (Napoli mon amour, NN Editore), dà la parola a un tenero “giovane Holden” napoletano, eterno disoccupato che coltiva il mito letterario di Raffaele La Capria; Francesca Maccani (Fiori senza destino, SEM), intreccia storie durissime di minori che ha raccolto in una scuola del quartiere CEP a Palermo; Lorenzo Moretto (Una volta ladro, sempre ladro, Minimum Fax), narra una drammatica vicenda famigliare che è anche un episodio di malagiustizia nell’Italia di Tangentopoli”, dichiara Ernesto Ferrero, Presidente della Giuria.[the_ad id=”7567”]

Al vincitore, che sarà proclamato nel corso della finale che si svolgerà sabato 29 giugno a Mogliano Veneto, andrà un premio in denaro di 5.000 euro, mentre agli altri quattro finalisti andrà un gettone di presenza di 500 euro ciascuno.

Il Premio, vinto nell’edizione 2018, da Francesco Targhetta, con Le vite potenziali, Mondadori, è stato trampolino di lancio per alcuni dei maggiori talenti della letteratura contemporanea, tra cui Paola Capriolo con La grande Eulalia (1988), Michele Mari con Di bestia in bestia (1989), Luca Doninelli con I due fratelli (1990), Paolo Maurensig con La variante di Lüneburg (1993), Francesco Piccolo con Storie di primogeniti e figli unici (1997), Elena Stancanelli con Benzina (1999), Giuseppe Lupo con L’americano di Celenne (2001), Antonia Arslan con La masseria delle allodole (2004), Francesco Pecoraro con Dove credi di andare (2007).

 
La cinquina: le motivazioni della Giuria

Jonathan Bazzi, Febbre, Fandango Libri

Nel 2016 Jonathan scopre di essere sieropositivo. La malattia non solo scava in lui un abisso di paure, ma anche riporta a galla ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza passata a Rozzano – Rozzangeles – ossia il Bronx di Milano, un quartiere dormitorio dove contano soltanto il “saper menare” e l’avere soldi; dove si tira a campare di espedienti e nessuno studia. È qui che due giovanissimi, Tina e Roberto, mettono al mondo Jonathan, ma presto si separano prendendo strade differenti; il bambino perciò si ritrova sballottato tra due coppie di nonni. A scuola deve poi affrontare sia la balbuzie sia la solitudine, causata da una sensibilità fuori dal comune, per cui diventa vittima di vari episodi di bullismo. Tra alti e bassi, cercando nell’istruzione una personale via di salvezza, Jonathan esce dall’orizzonte ristretto della periferia e riesce a trasformare l’esperienza della malattia in un viaggio dentro se stesso. L’epigrafe di Ingeborg Bachmann avverte: “Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco”. Due storie vere si intrecciano infatti in “Febbre” di Jonathan Bazzi: la prima, che dà il titolo al libro, è centrata sul rapporto di un giovane con la malattia e la paura della morte; l’altra racconta la vita delle periferie emarginate. Entrambe sono “narrazioni di guerra”: contro le superstizioni fumose che perseguitano chi è contagiato da HIV; contro la fissità dei ruoli all’interno della famiglia tradizionale; contro l’omofobia; contro i pregiudizi sociali nei confronti di chi proviene da una parte della città che pare isolata da una barriera immaginaria di filo spinato. Colpisce soprattutto il ritratto amaro che l’autore fa del suo quartiere di operai non qualificati, di famiglie assistite dai servizi sociali, di tossici e spacciatori che vivono in casermoni alveari e parlano una strana mescolanza di dialetti meridionali. E in qualche momento le pagine che Jonathan Bazzi dedica a Rozzano acquistano il colore scuro della voce di un rapper. Così alla fine il lettore si rende conto che la “febbre” del titolo non è solo quella causata dal virus, ma scaturisce da una passione bruciante per la vita.

Alice Cappagli, Niente caffè per Spinoza, Einaudi

Maria Vittoria, per tutti Marvi, ha bisogno di soldi, ma soprattutto di un cambio di vita. Troppa solitudine in casa con un marito che quasi non parla. Farà la badante, secondo la proposta dell’ufficio di collocamento, per un professore cieco, la cui unica, bizzarra, richiesta, è che la badante legga.
Ed ecco allora che in casa dell’anziano Professor Farnesi, piena di libri e di sole, lei inizia a leggere: Epitteto, Pascal, Spinoza. Ma non solo. Riordina lo studio e cucina, lo sente citare a memoria Sant’Agostino o Epicuro. Arrivano gli amici, coltissimi e affettuosi (la professoressa Aurora, Costantino), l’eco delle loro discussioni la raggiunge – e la incanta – anche in cucina.
Tra letture, vento, riflessioni, per Maria Vittoria è una stagione straordinaria. Grazie al professore, agli amici intellettuali, agli ex allievi che non lo hanno dimenticato, scopre che i libri sono la chiave di tutto. E soprattutto che il professor Farnesi non ha la vista ma “vede”, con la cultura, molte cose che invece alla maggior parte delle persone sfuggono. Tra Maria Vittoria e l’anziano professore si instaura un rapporto tenero e sincero, delicato: lei va oltre la propria ignoranza e le insicurezze, lui affronta l’inevitabile declino.
“Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli, è un romanzo profondo, e tuttavia lieve. L’ironia e il vento che soffia su Livorno, la città dove si svolge il romanzo, aiutano a pensare ma anche a sorridere. E livornese è l’autrice che suona il violoncello nell’orchestra del Teatro alla Scala dal 1982 ed è laureata in filosofia, dunque conosce in prima persona gli autori che Marvi legge. Una scrittura pulita, semplice e non distratta, il libro, senza troppi clamori scava dentro il lettore una delle lezioni del professore. Che dai libri che amiamo è possibile ripartire sempre, anche quando ogni cosa intorno ci dice il contrario.[the_ad id=”7569″]

Alessio Forgione, Napoli mon amour, NN Editore

“Solo ciò che è raccontato vive”, ha scritto Lalla Romano. Lo sa benissimo anche il disoccupato trentenne che vive alla periferia di Napoli, di cognome fa Amoresano ma non ci vuole dire il suo nome. Ha due lauree ma si sente un eterno incompiuto e detesta la vita “lenta e fumosa” che fa, cerca testardamente un posto decente nel mondo, ci fornisce la contabilità della molte birre che beve e delle partite del Napoli di cui è tifoso, conosce e perde il grande amore della sua vita. Amoresano ha due sole certezze, e un mito letterario, il Raffaele La Capria di Ferito a morte, “che ha così ben descritto Napoli che Napoli, per non rovinare il libro, non era più cambiata”, e se la gioca alla pari con Proust. Le certezze sono i molti libri che ha letto, dai classici russi a Céline e agli americani; e la scrittura, che può dare un ordine e un senso a quello che sembra non averne, a cominciare dalla sua città, vissuta con dolore e amore: “una bestia morente, un fiore appassito” che avvolge i suoi abitanti nella narcosi di una fatalistica rassegnazione e di una finta vacanza. Il titolo del romanzo ci rimanda a un film di culto degli anni ‘50, Hiroshima mon amour di Alain Resnais, centrato sul dovere della memoria e sulle emorragie dell’oblio.
Nella realtà della vita, è stato proprio lo stesso La Capria, lucidissimo 94enne, a darci la miglior definizione della scrittura di Forgione, particolarmente felice nei dialoghi, quando ha detto all’autore che è andato a rendergli visita a Roma: “Lei ha stile e, cosa ancora più rara, lei possiede una voce. Un buon narratore, cos’altro è se non una voce che ti sussurra all’orecchio? E lei quella voce ce l’ha”.
Una voce che ci diventa subito amica per la malinconia, la dignità, la ruvida tenerezza, lo humour accorato, l’amara autoironia, il mix tra realistico e visionario, ma anche l’economicità che sovrintende il suo accorto minimalismo. È con sincera convinzione che diamo ad Alessio Forgione il benvenuto nella categoria dei veri scrittori.

Francesca Maccani, Fiori senza destino, SEM

Fiori senza destino sono i protagonisti di storie di periferia, anzi, del Cep, Centro edilizia popolare, quartiere posto sul limite estremo di Palermo. Lontano dal mare e dalla magnificenza del capoluogo, adolescenti e docenti di una scuola difficile vivono un rapporto intenso, quale che sia. Diversi sono i punti di vista della narrazione: quelli degli allievi che raccontano di sé e delle loro difficoltà famigliari, e quelli dell’insegnante che vorrebbe aiutarli a superare i loro disagi.
Se i primi mostrano di sapersi raccontare senza schermi, esibendo la conoscenza perfetta di regole di vita non scritte, ma pervicacemente seguite, i secondi li accompagnano lungo quel tratto di strada, aiutandoli ad attraversare la loro linea d’ombra.
La vita del Cep è dura, rassegnata e crudele come è la vita dei diseredati di ogni luogo. E non concede scorciatoie anche quando la speranza e l’impegno per un futuro migliore sembrano poter vincere sulla sorte. Eppure in quell’inferno si può scovare, talvolta, anche lo spazio di un insperato riscatto.
Francesca Maccani ha saputo offrire un affresco corale, dalle più diverse tonalità narrative, capace di rappresentare le contraddizioni profonde anche della società e della cultura contemporanee.

Lorenzo Moretto, Una volta ladro, sempre ladro, Minimum Fax

Una storia privata che assume un valore collettivo: potrebbe essere questa la definizione del romanzo di Lorenzo Moretto. L’io narrante è un giovane milanese che vive in prima persona e con risvolti dolorosi l’esperienza della giustizia e del giustizialismo, in un momento delicato per la vita nazionale: la primavera in cui scoppia il caso di Tangentopoli e Milano (ma l’Italia intera) si scopre una città di corrotti e di corruttori. Protagonista di questa storia narrata è la famiglia del giovane, in particolare il padre che viene accusato e arrestato. D’ora in poi, non soltanto le domande si accavallano nella coscienza del narratore, ma prendono forma i dubbi e le perplessità intorno alla nozione di colpa e di errore, di verità e di menzogna. Lorenzo Moretto, con questo libro d’esordio, tenta la strada di una narrativa dalle finalità etiche, secondo una tradizione che era stata di Manzoni e poi di Sciascia. E ci restituisce una pagina coraggiosa e complicata di una nazione che, sul finire del secolo scorso, ha smarrito se stessa, ha confuso la ricerca del bene con l’abuso del potere, ha sovvertito l’esercizio del fare politica in una conquista di privilegi. Romanzo di formazione o narrazione di un dramma sociale, Una volta ladro, sempre ladro, è anche il ritratto di due generazioni a confronti, i padri e i figli, spesso vittime dell’incapacità di comprendersi.
I 27 ANNI DEL PREMIO BERTO

Il Premio Berto, nato nel 1988 su iniziativa di un gruppo di amici ed estimatori, critici illustri come Giancarlo Vigorelli, Michel David, Cesare De Michelis, scrittori come Dante Troisi e Gaetano Tumiati (questi ultimi avevano condiviso con Berto oltre due anni di prigionia in Texas durante la seconda guerra mondiale), ha raggiunto le 22 edizioni tra il 1988 e il 2010 e dopo una pausa è stato rilanciato nel 2014 in occasione del centenario della nascita dello scrittore moglianese e ripreso nel 2015. Il Premio è stato trampolino di lancio per alcuni dei più bei talenti della letteratura contemporanea.[the_ad id=”7569″]

GIUSEPPE BERTO

Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto (Treviso) il 27 dicembre 1914, secondo di cinque figli, da un maresciallo dei carabinieri in congedo. Compiuti gli studi liceali nel locale collegio dei Salesiani e nel Liceo di Treviso, si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, e studia con maestri quali Concetto Marchesi e Manara Valgimigli.
E’ nel 1943 durante la prigionia nel campo di internati in Texas che Berto inizia a scrivere. Ha come compagni di prigionia Dante Troisi, Gaetano Tumiati e Alberto Burri, che lo incoraggiano a scrivere nella rivista “Argomenti”. Lì compone Le opere di Dio e Il cielo è rosso; quest’ultimo romanzo, pubblicato da Longanesi nel 1947, su segnalazione di Giovanni Comisso, diviene rapidamente un successo internazionale dopo aver vinto nel 1948 il Premio Firenze. Escono, poi, nel 1948 Le opere di Dio, e nel 1951 Il brigante.
Trasferitosi a Roma, comincia a lavorare per il cinema: in questo periodo escono nel 1955 Guerra in camicia nera e nel 1963 il volume di racconti Un po’ di successo.
Berto nel 1958 cade in una grave forma di nevrosi, ne uscirà dopo tre anni di analisi quando compone Il male oscuro, che vince contemporaneamente nel 1964 il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Si aggiungono poi il dramma L’uomo e la sua morte (1963), La Fantarca (1964), e il romanzo La cosa buffa (1966). Nel 1971 scrive il pamphlet Modesta proposta per prevenire e il lavoro teatrale Anonimo Veneziano, ripubblicato come romanzo nel 1976. Con la favola ecologica Oh, Serafina! vince nel 1974 il Premio Bancarella. Dal dramma La passione secondo noi stessi, Berto matura l’idea portante del suo ultimo libro La gloria del 1978.
Si spegne a Roma il 1° novembre 1978. E’ sepolto a Capo Vaticano.
Pubblicate, postume, le seguenti opere: Colloqui col cane edito da Marsilio nel 1986; sempre della Marsilio La colonna Feletti. Racconti di guerra e prigionia usciti nel 1987; del 2003 Il mare dove nascono i miti edito da Monteleone e, pubblicata dalla medesima casa editrice, la raccolta di scritti dal titolo Giuseppe Berto – Critiche cinematografiche 1957-1958, volume in cui sono riunite le recensioni cinematografiche di Berto di quegli anni. Ultima opera pubblicata, nel 2013, L’elogio della vanità, edita da Settecolori.

Ilaria Giuliano

Ilaria Giuliano

Laureata in scienze giuridiche presso l'università di Pisa, è giornalista pubblicista per il Quotidiano del Sud e collabora con Informa dalla sua fondazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.