Isola, riapertura venerdì e novità sul fregio
La riapertura dell’Isola, di cui vi abbiamo già parlato in questo articolo, è imminente. Si tratta di un’occasione perfetta per tornare a parlare del santuario in cima allo scoglio. Lo facciamo assieme a Marcello Macrì, che in un suo recente studio fornisce nuovi elementi per conoscere meglio una delle opere d’arte custodite nell’edificio. Macrì si occupa infatti di un fregio che, fino a non molto tempo fa, veniva indicato come “ecce homo”, mentre grazie alla sua analisi da oggi potrà essere riconosciuto come esempio di “imago pietatis”.
Marcello, dopo le tue “Passeggiate tropeane”, pubblicate con Meligrana editore, torni a farci scoprire con occhi nuovi un pezzetto di Tropea, come sei giunto a questa tua nuova ricerca?
Bisogna ripartire dagli scritti di Mons. Francesco Pugliese, per tutti il Teologo, per ricavare informazioni precise sulle due lapidi presenti all’interno della chiesa dell’Isola di Tropea. La prima lapide che possiamo identificare come la lapide del monaco ieratico ci mostra un uomo dai lineamenti essenziali e bidimensionali di gusto bizantino con le mani incrociate (attribuita al Maestro di Mileto) e la seconda rettangolare costituita da tre tondi che, come da descrizione del teologo, « […] al centro reca un Ecce Homo, e ai lati due figure femminili».
Puoi dirci qualcosa in più sulla storia delle lapidi?
Le due lapidi facevano sicuramente parte di tombe presenti all’interno della chiesa che furono successivamente smontate per essere così riutilizzate.
Secondo uno schizzo del 1700, la prima lapide, attribuita al Maestro di Mileto, scultore del trecento, fu collocata al centro della navata come copertura della cripta mentre la seconda lapide, cosiddetta lapide dell’ecce homo, come il teologo scrive, fu collocata «[…] all’esterno della chiesa sugli stipiti della porta d’ingresso e esposto a tutte le intemperie e alla salsedine marina ivi rimase per secoli, lo era ancora all’inizio del 1700». Che questo fregio fu per molto tempo sulla facciata della chiesa lo conferma uno schizzo datato 1721, che mostra sopra l’ingresso principale un fregio dove si possono ben distinguere i tre tondi che il Teologo descrive come «l’Ecce Homo affiancato da due figure femminili».
Tornando al Maestro di Mileto, cosa lo collega alle due lapidi tropeane?
Ritornando a Mileto e precisamente all’interno del Museo Diocesano possiamo riscontrare notevoli affinità di questo fregio con i fregi attribuiti al Maestro di Mileto e in particolare con il fregio Sanseverino.
Ma se smontare vecchi monumenti e riutilizzarli per altre funzioni era una pratica ben diffusa a quei tempi (pratica dello spolio e riutilizzo che possiamo riscontrare sin dalle prime chiese cristiane) è anche vero che il riutilizzo non avveniva solo per meri e liberi scopi decorativi ma seguiva precise logiche legate alla tradizione. Ora di Ecce Homo in facciata è molto difficile vederne in altri casi se non fosse che in realtà non si tratta di un Ecce Homo ma di qualcos’altro. E in effetti osservando la tradizione iconografica dell’ecce homo possiamo ben notare come tra le mani sovrapposte siano sempre presenti sui polsi i segni o la stessa corda usata durante la flagellazione che il Cristo subì prima di essere mostrato ai giudei.
E secondo lei perché il fregio presente a Tropea sarebbe differente?
Se andiamo ad analizzare il nostro fregio, notiamo che non ci sono i segni di una corda ma solo i segni della passione (i fori lasciati dai chiodi).
Naturalmente non possiamo pensare ad una svista dello scultore, che nello scolpire l’ecce homo avrebbe tralasciato la scultura dei segni del flagello subito, né tantomeno ad una sua libera interpretazione specie in un periodo dalla quasi assente licenza artistica; quindi dobbiamo concludere che in realtà lo scultore non volle mostrarci il Cristo flaggellato ma volle mostrarci il Cristo in un altro momento della sua vita anzi per essere più precisi della sua morte.
Se quella non è l’iconografia tipica dell’ecce homo, di cosa si tratta?
L’autore scolpì in realtà un soggetto iconografico proveniente dalla vicina cultura bizantina, quello che prende il nome di Imago Pietatis, un soggetto iconografico che vede Gesù morto in posizione eretta, il più delle volte con un accenno del sepolcro, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul ventre con solo i segni della passione, cioè i fori dei chiodi usati per la crocifissione. Il più delle volte nella tradizione iconografica dell’Imago Pietatis, Gesù viene affiancato dalle figure della Madonna e di San Giovannino ed ineffetti il Teologo parla di due figure femminili, che come la storia dell’arte ci mostra copiosamente, San Giovannino viene spesso rappresentato con tratti molto femminili.
Ma sarebbe l’unico esempio di Imago Pietatis nella nostra zona?
No, ritornando ai fregi sepolcrali di Mileto qui possiamo notare anche lo scorcio del sepolcro: Cristo dal sarcofago San Severino del Maestro di Mileto ricalca la stessa iconografia.
Ora un altro interrogativo a cui bisogna rispondere è il perché un Imago Pietatis venne smontato per essere riutilizzato in facciata.
Se ci spostiamo non di molto e risaliamo in paese, in un angolo dell’attuale piazza Galluppi, tra le sterpaglie possiamo scorgere la facciata di un piccolo gioiello gotico, la cappella di Santa Margherita, che sulla chiave dell’arco a sesto acuto riporta la figura di Cristo, anche questo fino ad oggi identificato come un ecce homo. Ma anche in questo caso si tratta di un Imago Pietatis che la tradizione spesso lo vedeva rappresentato anche con la figura di cristo isolata.
Inoltre guardando ai Monti di Pietà possiamo vedere l’uso di mettere in facciata questo soggetto iconografico. Questi monti di pietà si diffusero per opera degli ordini mendicanti, lo stesso ordine mendicante e precisamente quello francescano a cui la cappella di santa margherita apparteneva.
Perciò, questi esempi fanno parte di un patrimonio che ereditiamo dal periodo bizantino grazie agli ordini mendicanti.
Una bellissima tradizione iconografica simbolo di una cultura bizantina che in questa terra ha lasciato la sua impronta come questa Imago Pietatis che ancora non influenzata dalla rivoluzione tridimensionale del rinascimento sta oggi in questa chiesa come eredità di un grande passato che si può ancora respirare tra le mura di questa piccola chiesa osservata con orgoglio da secoli dalla sua città.
Grazie a Marcello e alle sue osservazioni, è possibile riscrivere una pagina di storia dell’arte relativa al patrimonio artistico tropeano. Da oggi sappiamo infatti che il fregio contenuto all’interno della chiesetta di Santa Maria dell’Isola, assieme ad altri due esempi (uno custodito a Mileto e uno sempre a Tropea), rappresentano il Cristo appena uscito dal sepolcro e non il Cristo flagellato. Con molta probabilità la scelta di questa tipologia serviva a richiamare l’idea di resurrezione dopo la morte e per questo si prestava a essere collocata in prossimità di una tomba, ma anche la pietà in generale, come quella dimostrata dalla Madonna che sorregge il Redentore, e quindi adatta ai Monti di Pietà, nati per sostenere e sorreggere i fedeli in difficoltà con piccoli prestiti.
Mentre nella cappella di Santa Margherita a Tropea e a Mileto abbiamo l’esempio più ricorrente di Imago pietatis, con la sola figura del Cristo che emerge dal sepolcro a due terzi, riscontrabile in autori quattrocenteschi come Giovanni Bellini, le tre figure presenti nel fregio della chiesetta dell’Isola sono sorprendentemente confrontabili per collocazione – la Madonna sulla sinistra e San Giovannino sulla destra – e per posizione – la prima con le mani conserte in preghiera e il secondo con le mani unite in basso – a una tempera su tavola di un pittore lombardo del XV-XVI secolo (nella foto). Tutti questi esempi, a loro volta, ricalcano un modello iconografico desunto dalla cosiddetta Immagine Gregoriana (che prende il nome dall’altare del santo presso la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma), molto diffusa in occidente ma di origine bizantina, che conduce a una datazione trecentesca.